All’università studiavo ergonomia cognitiva: come la mente umana elabora le informazioni e come progettare sistemi che non la sovraccarichino. Quello che molti chiamavano “limitazioni” erano semplicemente modi diversi di elaborare informazioni. Un testo ben strutturato aiutava tutti a capire meglio, non solo chi aveva difficoltà di lettura.
Era scienza applicata, non buonismo: rimuovere ostacoli cognitivi significava permettere a più persone di raggiungere i loro obiettivi.
Poi sono entrato nel mondo dello sviluppo web e ho scoperto una realtà diversa.
“Costa troppo” = l’accessibilità è un optional di lusso, non un diritto.
“Rallenta i tempi” = meglio consegnare in fretta che consegnare bene.
“La nostra clientela non ne ha bisogno” = i disabili non rientrano nel nostro target.
La stessa scena che si è ripetuta fino ad ora: designer che presentavano mockup stupendi con testi grigi su sfondo bianco “perché fa minimal”. Quando facevo notare il problema di scarsa leggibilità: “Ah sì, però ora non abbiamo tempo, sistemeremo dopo.”
Dopo non arrivava mai.
Ma fatturavano, quindi tutti felici.
La verità? A nessuno importa davvero.
“La caffettiera del masochista” è argomento da pausa caffè, ma poi chissà in quanti lo hanno letto davvero.
Ora che arriva la normativa europea sull’accessibilità improvvisamente tutti corrono ai ripari (💩) : consulenze urgenti, audit frenetici, check-list da spuntare in fretta.
Ma lo stiamo facendo perché ci crediamo davvero o solo perché ora è obbligatorio?
Perché se è solo compliance, continueremo a fare il minimo indispensabile. Se invece fosse un cambio di mentalità, inizieremmo a vedere l’accessibilità non come un costo, ma come design migliore per tutti.
Forse il vero problema non è tecnico, ma culturale: quando smetteremo di pensare all’accessibilità come a un “plus” e inizieremo a vederla come parte integrante di quello che facciamo?

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